Nel 2021 Vestiaire Collective è diventato il primo unicorno francese – una start-up privata del valore di oltre un miliardo di dollari – fondato da donne. Sempre nel 2021 l’azienda è stata anche la prima piattaforma di rivendita nel settore della moda a conquistare il certificato B Corporation quale riconoscimento del suo impegno a ridurre l’impatto ambientale dell’industria del fashion. (Con la decisione di bandire i marchi del “fast fashion” dalla propria piattaforma, Vestiaire ha suscitato grande scalpore nel settore in cui opera.)
La tempistica di questi due primati non è una coincidenza. Fin dal 2009, anno del suo esordio a Parigi negli appartamenti delle fondatrici Sophie Hersan e Fanny Moizant, Vestiaire si è contraddistinta per l’impegno senza sé e senza ma a favore della sostenibilità. “Tutto è partito dalla sostenibilità” affermano Sophie e Fanny. “Fin dal giorno uno abbiamo capito che la nostra generazione stava creando rifiuti, perché è stata la prima a consumare abiti del fast fashion”.
Oggi Vestiaire è presente in 70 paesi, occupa all’incirca 650 persone in otto sedi dislocate a livello globale, ha un catalogo che contiene oltre cinque milioni di articoli ed è riconosciuta come la piattaforma di rivendita leader nel settore dell’abbigliamento e degli accessori di alta moda usati.
Lì dove Vestiaire ha osato, altri poi l’hanno seguita. Alla luce delle numerose piattaforme di rivendita della moda sorte negli ultimi anni e delle previsioni del sottosettore di superare in performance l’industria della moda più ampia, analizziamo insieme in che modo la sostenibilità e la longevità contrastino quei cambiamenti rapidi e costanti che da sempre contraddistinguono il fashion.
Comprare meno e comprare meglio
Nel 1885 lo scrittore irlandese Oscar Wilde ha fornito una descrizione di quella che considerava la “malsana brama di cambiamento” dell’industria della moda:
“Mi è stato detto, e temo di crederci, che se una persona ha investito incautamente in quello che viene definito “l’ultimo cappellino parigino” e lo ha indossato per due settimane suscitando la rabbia e la gelosia del vicinato, è abbastanza certo che la sua più cara amica andrà a farle visita e, non a caso, le dirà che quel particolare tipo di cappellino è assolutamente passato di moda. Di conseguenza, sarà necessario acquistare subito un nuovo cappellino, placare la Fifth Avenue e affrontare ulteriori spese".
Sebbene i “cappelli parigini” non siano più in voga, l’impulso umano a seguire le tendenze continua a essere la colonna portante del modello di business di questo settore. Oggi, tuttavia, il ritmo del cambiamento ha raggiunto una velocità da capogiro, a partire dal fast fashion che ha fatto la sua comparsa negli anni Novanta – sulla scia del desiderio dei marchi di portare gli abiti dal tavolo da disegno agli scaffali dei negozi nel giro di quindici giorni – a quella che è stata definita la “moda ultraveloce”, con “microtendenze lampo” alimentate dai social media.
Tra il 2000 e il 2014 la produzione globale di abbigliamento è raddoppiata, salendo a 100 miliardi di articoli, e ogni singolo individuo acquista mediamente il 60% in più rispetto a quanto faceva all’inizio del millennio
A mano a mano che il ritmo si è fatto più incalzante, è aumentato anche l’effetto scala. Secondo una ricerca condotta dalla Ellen MacArthur Foundation e dalla società di consulenza McKinsey, tra il 2000 e il 2014 la produzione globale di abbigliamento è raddoppiata, salendo a 100 miliardi di articoli1, e ogni singolo individuo acquista mediamente il 60% in più rispetto a quanto faceva all’inizio del millennio.2 I maggiori consumi hanno comportato un forte incremento dei rifiuti: nel 2015 si stimava che ogni anno tre articoli del fast fashion su cinque finissero in discarica o fossero inceneriti.3 L’industria della moda è ritenuta responsabile del 4% delle emissioni globali di gas a effetto serra (GHG) e si sta ulteriormente allontanando dalla traiettoria necessaria affinché il settore possa raggiungere gli obiettivi sanciti dall’Accordo di Parigi entro il 2030.4
In questo scenario si riscontra comunque una tendenza alternativa, alimentata dai consumatori sempre più attenti al clima e smaniosi di fare affari. Da uno studio condotto da Vestiaire è emerso che l’85% dei suoi utenti “è disposto a comprare meno ma meglio”. Più in generale, il mercato di rivendita della moda sta attualmente sorpassando il settore più ampio, a mano a mano che sempre più consumatori fanno dell’usato la loro scelta di elezione. Per dirlo con le parole di Vestiaire: “il vecchio è la vera novità”.
L’industria della moda è ritenuta responsabile del 4% delle emissioni globali di gas a effetto serra (GHG) e si sta ulteriormente allontanando dalla traiettoria necessaria affinché il settore possa raggiungere gli obiettivi sanciti dall’Accordo di Parigi entro il 2030
I marchi ci stanno
Al primo lancio di Vestiaire, i marchi che la società prevedeva di vendere si sono mostrati poco entusiasti: scetticismo sulla possibilità che ci fosse sufficiente interesse da parte dei consumatori, unito al timore “di perdere quote di mercato o potenziali clienti”, spiegano Sophie Hersan e Fanny Moizant.
Adesso le cose stanno diversamente. Nel prendere atto che chi vende i propri articoli di lusso sta spesso solo facendo spazio per poterne comprare di nuovi e che il mercato dell’usato potrebbe essere l’ideale per far avvicinare potenziali futuri clienti ai propri prodotti, una dozzina di marchi leader, tra cui Gucci, Chloé, Burberry e Alexander McQueen, collaborano oggi con Vestiaire per rivendere i propri abiti, scarpe e accessori senza soluzione di continuità.
Una scelta analoga hanno fatto altri marchi e outlet del lusso tra cui Selfridges, che si è dotato di una piattaforma di rivendita in-house, e Balenciaga che ha siglato una partnership con la piattaforma di rivendita Reflaunt. Stando alle ricerche della società di consulenza McKinsey, i marchi che optano per il mercato della rivendita si assicureranno probabilmente una maggiore fidelizzazione della clientela, anche tra gli acquirenti di nuovi prodotti.5
Ridurre l’impronta ambientale della moda
Alla base di tutto sta il crescente desiderio di molti consumatori di ridurre la propria impronta ambientale nel settore della moda. Un sondaggio su vasta scala condotto nel 2020 dal Boston Consulting Group (BCG) ha mostrato che il 70% degli acquirenti di capi di abbigliamento usati “si sente in dovere di acquistare articoli di seconda mano nel tentativo di diventare più sostenibile”: una percentuale in aumento, rispetto al 62% di appena due anni fa.6 Oggi la sostenibilità è il secondo fattore di influenza più importante che traina la rapida espansione del mercato dell’usato.7
La ricerca di Vestiaire dimostra che acquistare capi di seconda mano può avere un impatto ambientale del 90% inferiore rispetto all’acquisto di un capo nuovo equivalente, tenuto conto delle emissioni di GHG, dei rifiuti, dello sfruttamento del suolo e dell’inquinamento atmosferico e idrico.8
Oggi Vestiaire previene una quantità di emissioni tre volte superiore a quella che genera, un dato che va di pari passo con l’effetto scala del business
Tuttavia, per i consumatori attenti al clima, non è detto che la storia finisca qui. L’impegno di Vestiaire a favore della sostenibilità ha radici più profonde della mera riduzione dell’impatto ambientale causato dall’acquisto di capi nuovi. In tutte le attività operative, gli sforzi per ridurre al minimo l’utilizzo di imballaggi ed energia, accorciare le distanze di spedizione e rinunciare al trasporto aereo stanno abbassando l’intensità di carbonio a livello aziendale, tanto che oggi Vestiaire previene una quantità di emissioni tre volte superiore a quella che genera,9 un dato che va di pari passo con l’effetto scala del business.
Nel frattempo, BCG stima che con la progressiva maggiore espansione del mercato della rivendita, ormai diventato un fenomeno di massa, questo potenziale impatto positivo beneficia di un’ulteriore spinta, con il 70% dei consumatori che dichiara che la fruibilità di un mercato della rivendita facilmente accessibile “li stimola a prendersi più cura dei capi di abbigliamento che possiedono”10 per garantirne la durata nel tempo e la futura possibilità di rivendita.
Rapido aumento di scala vuol dire opportunità di investimento
Il settore cresce rapidamente: nel 2021 il proprietario di Gucci, Kering, ha partecipato a un investimento di 214 milioni di dollari in Vestiaire Collective, accelerando lo sviluppo della piattaforma in nuovi mercati. Anche altre piattaforme di rivendita esclusive hanno suscitato l'interesse dei marchi del lusso: nel 2018 il gruppo svizzero Richemont ha acquistato Watchfinder, il sito web dedicato alla rivendita di orologi, mentre nel 2019 la catena statunitense del lusso, Neiman Marcus, ha acquisito una partecipazione in Fashionphile, un sito che rivende borse e accessori di lusso di seconda mano.
Storie analoghe riguardano tutti i segmenti dell’universo “recommerce”, che ha assistito a un’impennata altrettanto marcata degli articoli non di lusso. Nel luglio 2021, per fare un esempio, il mercato online Etsy ha acquistato per 1,6 miliardi di dollari la piattaforma di rivendita della moda Depop; quest’anno i media hanno riferito che il gruppo di private equity americano TPG è in trattativa per acquisire una partecipazione in Vinted, secondo cui la valutazione della piattaforma di rivendita sarebbe di 5 miliardi di euro, in aumento rispetto alla valutazione di 3,5 miliardi di appena tre anni fa.
Considerata la previsione di un tasso di crescita composto annuo del 15-18%, è probabile che il mercato raggiungerà i 460 miliardi di dollari entro il 2030
La convenienza per gli investitori è evidente: le vendite di abbigliamento e accessori di seconda mano stanno registrando una crescita sei volte più rapida rispetto all’intero comparto della moda che registra un periodo di crescita stagnante, attorno al 3%.11 Nel 2020 il valore del mercato della rivendita era stimato tra 30 e 40 miliardi di dollari;12 nei soli ultimi quattro anni si ritiene che tale valore sia triplicato, salendo a 100 miliardi di dollari.13 Inoltre, considerata la previsione di un tasso di crescita composto annuo del 15-18%, è probabile che il mercato raggiungerà i 460 miliardi di dollari entro il 2030.14
Recommerce: fondamentale per la crescita del marchio
Noi di Lombard Odier consideriamo l’espansione della rivendita nel settore della moda come la componente chiave della migrazione verso un’economia circolare, nella quale riduciamo le attività estrattive e inquinanti, sfruttiamo meno i terreni per la coltivazione di materiali come il cotone e riutilizziamo, ripariamo e ricicliamo di più per creare nuove opportunità di impiego e conservare una quota maggiore di valore all’interno della stessa catena del valore. La progressiva espansione del mercato è destinata a innescare un circolo virtuoso. La maggiore disponibilità e possibilità di scelta attireranno nuovi acquirenti e venditori, il che potenzialmente spingerà l’usato verso il suo apice, quando gli acquirenti saranno tanto interessati al recommerce quanto all’acquisto di capi nuovi.
Se da un lato alcuni marchi della moda e maison di design di chiara fama saranno obbligatoriamente destinati a sovraperformare, dall’altro riteniamo che da qui al 2030 il rallentamento della crescita nel settore della moda tradizionale15 stia a indicare che il recommerce sarà la principale, se non l’unica, fonte di crescita dei marchi della moda “mediamente” consolidati nei segmenti mid-market e premium. L’esposizione al recommerce sta velocemente diventando indispensabile per questi marchi.
Naturalmente gli investitori devono tenerne conto. Anche se le previsioni per le piattaforme di recommerce sono rosee, quando il mercato sarà più affollato ci saranno vincitori e vinti. Tuttavia, una comprensione approfondita dell’evoluzione di questo nuovo ed eccitante universo darà agli investitori la possibilità di conseguire potenziali sovraperformance di mercato a lungo termine, favorendo al tempo stesso la migrazione verso un’industria della moda più sostenibile.
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